Sono certo che almeno una volta nella vita, non per forza sotto l’effetto di qualche sostanza, avete pensato che quel vecchio ghetto blaster, quel radiolone, vi stesse guardando e cercasse di parlarvi, di comunicarvi qualcosa. Ebbene, Paolo Magaudda sostiene saggiamente che gli oggetti che comunemente utilizziamo soltanto al fine di ascoltare musica, dovremmo invece “ascoltarli” e dar loro retta anche quando cercano di raccontarci “qualcosa in più su quell’eterogenea infrastruttura socio-cultural-materiale che costituisce la sostanza della nostra vita quotidiana”.
Lo studioso è attualmente ricercatore presso il CIGA, il Centro Interdisciplinare dell’Università di Padova che si occupa di studiare le dimensioni etiche, sociali e legali implicate nello sviluppo delle nanotecnologie e delle più recenti innovazioni scientifiche e tecnologiche.
La sua traiettoria è quella di un laureato in Scienze della comunicazione che poi ha iniziato a specializzarsi in campo sociologico e che dal punto di vista scientifico lavora al confine tra la sociologia e gli studi culturali, più attenti alle questioni che riguardano aspetti della vita meno istituzionali e più legati alla cultura come ad esempio la musica.
Paolo Magaudda fa parte del comitato di direzione della rivista Studi culturali de Il Mulino ed è proprio la prestigiosa casa editrice bolognese che nei giorni scorsi ha pubblicato, nella collana Studi e Ricerche, il suo nuovo saggio intitolato Oggetti da ascoltare. Hifi, iPod e consumo delle tecnologie musicali (194 pagg.,19 €). Un libro a tutti gli effetti un po’ borderline, che ha tutti i crismi, la precisione metodologica, terminologica e la struttura di un testo sociologico ma tratta temi che hanno decisamente a che fare con la popular culture. Del resto, esiste forse qualcosa di più pop e poetico delle lancette dei VU meter che danzano e si dimenano con ardore tarantiniano a ritmo di musica oppure qualcosa di più emblematico, nella nostra epoca, degli auricolari bianchi di un iPod ad ornare il capo di un ragazzino che esce da scuola o di una fanciulla che fa jogging nel parco? Vista l’ampiezza ed interesse intrinseco della materia trattata la lunga e piacevolissima chiacchierata con l’autore avrebbe potuto protrarsi all’infinito, per quanto mi riguarda. Quanto segue è il resoconto del nostro incontro.
Quale era l’obiettivo originario dell’indagine e quali gli esiti più interessanti?
In origine l’idea era quella di mettere insieme due miei interessi, quello per le tecnologie e quello per la musica, con l’obiettivo di vedere in che modo le tecnologie costituiscono un elemento importante per capire che cosa fanno le persone tutti i giorni. Dal punto di vista musicale, studiare i dispositivi musicali è una maniera per vedere come la musica entra nella vita delle persone. Il libro dimostra che a differenti tecnologie corrispondono non solo differenti musiche ma anche differenti forme, usi sociali e relazionali della musica. Sicuramente quello che mette in luce la mia ricerca è che quando pensiamo al ruolo delle tecnologie musicali nella vita e nell’esperienza musicale è tutto molto più complesso rispetto a ciò che spesso viene raccontato come l’arrivo di una nuova tecnologia che trasforma e rivoluziona i comportamenti delle persone. Invece i comportamenti delle persone, soprattutto nelle fasi iniziali di utilizzo, co-costruiscono le tecnologie, si modellano reciprocamente. Le abitudini musicali chiaramente si trasformano ma si trasformano anche le tecnologie, adattandosi un po’ ad abitudini consolidate. Ad esempio la musica digitale non ha cambiato improvvisamente le abitudini ma vediamo che alcuni aspetti si sono integrati a poco a poco nelle abitudini.
Il libro sembra diviso in due parti piuttosto nette: nella prima vengono descritti gli audiofili, i quali paiono avere un approccio quasi maniacale, puro, solo marginalmente dettato dal gusto e dalla cultura musicale, più che altro da una sorta di religione tecnicistica in cui il rito dell’ascolto pretende di essere officiato nel proprio tempio domestico. Nella seconda parte invece emergono testimonianze di persone che mettono in atto sistemi creativi di fruizione, persone magari meno attente alla qualità del suono ma più attente al suo contenuto ed alla dimensione sociale più ampia di cui la musica è veicolo…
In effetti il libro tratta di due casi distinti che mette in relazione per capire come a differenti tecnologie corrispondano differenti mondi sociali, di usi, di relazioni, di musiche. Nel caso dell’hifi, che tu riconoscevi come molto centrata sugli aspetti tecnici e in qualche modo rituali, ci troviamo di fronte ad una tecnologia che si è sviluppata nel corso di molti anni. Le tecnologie di quel tipo di ascolto in alta fedeltà iniziano negli anni cinquanta e raggiungono l’apice negli anni settanta ed oggigiorno ci troviamo di fronte a quella che possiamo definire una tecnologia matura, una maniera di ascoltare la musica che si è cristallizzata nel corso dei decenni. Per cui prevalgono altri aspetti, ad esempio imparare una tecnica, imparare a distinguere differenti apparecchiature. Inoltre anche per questo gli appassionati di hifi hanno un età media più elevata ed inoltre è una passione che richiede più investimento economico, più devozione. La musica digitale è invece il caso di una tecnologia recente, nuova, in cui, al contrario del primo caso, possiamo vedere in fieri, in divenire, come l’utilizzo delle tecnologie contiene tutta una serie di elementi di creatività, di flessibilità e di necessità, da parte dei consumatori, di immaginare creativamente dei percorsi di consumo e di utilizzo personali e che possono essere spesso differenti da usi standardizzati e stereotipati. Nel caso della musica digitale abbiamo esempi di differenti modi di articolare le tecnologie rispetto ai bisogni e al più generale contesto sociale.
Quale rapporto hanno gli audiofili con la musica elettronica?
La musica in alta fedeltà riflette un modo di pensare la musica che appartiene ad un epoca un po’ differente ed anche un po’ remota, l’idea che la musica sia innanzitutto la musica acustica, classica, un’idea che fino agli anni Settanta era pienamente diffusa e condivisa. E’ una concezione di musica precedente allo sviluppo di nuove tecniche creative nell’uso dello studio di registrazione, dei campionatori, eccetera. Questa associazione fra una concezione di musica e l’uso di tecnologie si sposa con i gusti degli audiofili che infatti, in linea di massima, sono gusti legati a tipi di musiche in cui l’idea dello strumento acustico o dell’esecuzione registrata dal vivo rimane ancora molto forte: come il jazz, la musica classica o la world music. Generalmente non sono appassionati di musiche in cui la distinzione tra strumento reale o suoni registrati o elaborazioni elettroniche invece è completamente sfumata. Una volta chiesi ad un appassionato cosa ne pensava rispetto a questo tipo di questioni. Questa persona rimase molto perplessa, penso soprattutto perché, in qualche modo, dal punto di vista delle gerarchie musicali tra gli appassionati di hifi la forza, l’aura e la qualità del suono acustico rimangono di un livello superiore.
Il fattore “Waf”, Women (o Wife) Acceptance Factor, viene definito nel libro come il grado con il quale l’acquisto o l’uso di un nuovo componente hi-fi viene accettato dalle mogli o compagne degli appassionati di alta fedeltà: quali sono le implicazioni sociali dettate da scelte per forza di cose assolutizzanti nello stile di vita degli audiofili?
Tutta una parte del libro è dedicata al rapporto tra appassionati di hi-fi e sesso femminile perché generalmente gli audiofili sono quasi esclusivamente uomini. Questo è un primo aspetto che riflette in qualche modo una associazione di questo tipo di tecnologie con una divisione dei ruoli tra i generi molto tradizionale, in cui l’uomo è appassionato di alcune questioni tecniche mentre le donne ostacolano la passione degli uomini e a volte si mettono in mezzo. Il fattore Waf è uno degli aspetti più evidenti di tutta una questione più problematica riguardante il modo in cui le tecnologie entrano nella vita domestica e nei rapporti tra uomini e donne: più in generale nel libro viene illustrato come l’utilizzo di queste tecnologie sia strettamente legato all’organizzazione dello spazio domestico. La disposizione dell’impianto richiede infatti di posizionare il divano davanti alle casse, di avere uno spazio sufficiente intorno all’impianto eccetera, eccetera, per cui utilizzare un impianto e montarlo in una stanza richiede di negoziare, di mettersi d’accordo sull’utilizzo degli spazi domestici. Spesso è proprio intorno all’utilizzo degli spazi che differenti membri della famiglia hanno idee divergenti: i problemi ed anche i litigi riguardanti la disposizione mostrano come la passione per la musica coinvolga direttamente le relazioni tra le persone che vivono l’esperienza di consumo della musica ma anche come l’utilizzo concreto delle tecnologie non abbia sempre un esito semplice e lineare, senza conflitti o problemi. Utilizzare delle tecnologie significa spesso risolvere problemi o conflitti che sono in parte tecnici ma in parte anche relazionali e prodotti da queste stesse tecnologie. E’ una cosa che vale anche, ad esempio, per l’utilizzo del telefonino che a volte può innervosire le persone che ne subiscono un uso smodato. Il discorso vale anche per Facebook: basti vedere come certi usi del social network abbiano provocato licenziamenti, abbiano spaccato delle famiglie o abbiano causato degli equivoci nelle relazioni personali.
Un po’ di archeologia: è straordinario leggere le testimonianze di persone che utilizzavano i programmi radiofonici per registrare su audiocassetta le loro canzoni preferite e creare compilation rudimentali. Ci sono molti artisti ed etichette come Dominick Fernow aka Prurient aka Vatican Shadow o la Not Not Fun, che anche al giorno d’oggi pubblicano su cassetta i loro nuovi lavori. Alla luce di ciò come si può considerare il riemergere di forme di “resistenza” implicanti l’uso della cassetta come supporto fonografico?
La questione della cassetta come in parte anche del vinile, cioè il ritorno di tecnologie antiquate che sembravano ormai cadute in disuso, è un aspetto molto interessante per capire, in primo luogo, come le tecnologie o gli oggetti non sono solo banali strumenti per svolgere dei compiti ma appunto in qualche modo sono delle interfacce che trasformano l’azione individuale al mutare delle loro caratteristiche materiali e funzionali. Dunque, a supporti diversi non corrisponde solo una qualità sonora differente ma corrisponde anche un differente rapporto con chi utilizza questi strumenti: sia in termini di differenti azioni pratiche permesse ad esempio dal vinile (differenti rituali come prendere un disco, metterlo sul giradischi, posizionare la puntina o alzarsi per cambiare facciata) sia in termini culturali rispetto a determinati valori che noi riconosciamo a certi oggetti che hanno una particolare storia rispetto ad altri. Aggiungerei anche che in generale possiamo pensare a questo ritorno dei vecchi supporti, delle vecchie tecnologie, come a una questione legata a che cosa è la musica per gli ascoltatori. La musica per gli ascoltatori non è soltanto suono e la storia della musica ci mostra come le culture musicali siano culture profondamente materiali (gli strumenti musicali, il collezionismo). La trasformazione della musica in digitale ha in qualche modo incrinato questa presenza, anche materiale, della musica nella società. E la conseguenza forse inattesa della diffusione della musica digitale è appunto anche una rinascita culturale di quei supporti ritenuti oramai scomparsi.
Quali scenari possiamo prevedere rispetto al file sharing ed alle leggi sul copyright?
Fare previsioni è molto difficile ma certamente ciò che abbiamo davanti agli occhi, e su cui possiamo ragionare, è la traiettoria su cui il file sharing e la distribuzione illegale si è evoluta nel corso degli ultimi dieci o dodici anni. Per quanto ci siano state leggi e tentativi di limitazione ed anche momenti in cui sembrava che la pirateria potesse essere fermata, la circolazione illegale di materiali è divenuta sempre più forte, diffusa e semplice. Non pensando solo alla musica ma anche al cinema, recentemente per esempio la chiusura di Megavideo è sembrata un colpo molto forte alla circolazione illegale dei file ma in questi ultimi mesi stiamo assistendo alla nascita ed alla diffusione di nuovi servizi di distribuzione illegale E sono spesso servizi che funzionano meglio e che hanno meno limitazioni. Questo è un piccolo esempio di una traiettoria che si evolve in direzione di un costante ampliamento della circolazione di contenuti illegali. Si potrebbe dire che il virus della condivisione selvaggia è resistente agli antibiotici e perciò forti iniezioni di farmaci sortiscono l’effetto di rafforzare e raffinare delle pratiche e delle strategie in virtù delle quali l’azione riprende con maggior vigore di prima.
Nella parte conclusiva del saggio emerge il concetto di “co-evoluzione” in cui non esiste alcuna distinzione tra ciò che è “tecnologico”, ciò che è “naturale” e ciò che è “sociale”…
L’aspetto teorico emerge come prodotto di un’analisi empirica di esperienze, interviste, fatti concreti. L’idea semplicistica che il libro cerca di smontare è che le tecnologie arrivino dal nulla e rivoluzionino radicalmente i comportamenti delle persone in virtù di caratteristiche particolari. Questo non è vero nel caso della musica ma anche se pensiamo ad altri tipi di tecnologie come l’automobile, la televisione, il telefonino. L’idea di co-evoluzione mette l’accento sul fatto che le tecnologie sono il prodotto di un lento processo sociale in cui, accanto ad aspetti tecnici ed invenzioni, si accompagna l’evoluzione di abitudini e modi di fare delle persone. Esse si trasformano insieme alle tecnologie in quello che negli studi sociali sulla tecnologia viene definito come un processo di co-evoluzione: mentre le abitudini delle persone contribuiscono a generare il bisogno di nuove tecnologie queste stesse tecnologie contribuiscono a loro volta a modificare i bisogni e le abitudini. Potremmo dire che questo processo circolare rimanda le proprie origini, simbolicamente, alla scena di 2001 Odissea nello spazio in cui la scimmia utilizza per la prima volta un osso come una tecnologia di offesa, inventando così un attrezzo tecnologico. Infatti, nel film di Kubrick, l’osso si trasforma, con un passaggio narrativo, in un’astronave del futuro comandata da un robot.
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